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Renato Palma: Educazione come accompagnamento

La relazione con i bambini, fin dal loro arrivo nella nostra vita, da qualche tempo è alla ricerca di un equilibrio molto instabile tra gli obiettivi dell’educazione e la necessità di non rompere il rapporto di fiducia, che poggia le sue fondamenta sulla rinuncia di sentirsi superiori a loro.

Spesso la asimmetria, ovvia, di competenze, si trasforma in una asimmetria di potere, mettendo i nostri nuovi compagni di viaggio nella posizione di minori.

All’inizio i bambini si fidano di noi. Poi progressivamente cambiano idea, e la cambiano per l’esperienza che accumulano giorno dopo giorno.

Noi abbiamo la pretesa che loro siano come li vogliamo, che condividano le nostre idee e le nostre abitudini. Per ottenere questo risultato siamo disponibili ad assumere comportamenti che almeno alcuni di noi non condividono ma che si vedono costretti a scegliere per i vincoli a contorno. La pressione sociale, l’identità di appartenenza, gli automatismi acquisiti, l’impregnazione pedagogica ci liberano dalla responsabilità di restare in rapporto, di mantenere l’intimità, di ricevere informazioni sul gradimento che le nostre scelte ottengono da coloro che, non dimentichiamolo, sono obbligati a stare in rapporto con noi, senza alternative.

È la certezza del fin di bene. Lo faccio per te. Vedrai che alla fine ti sarà utile.

È il mercato più vecchio del mondo: vendi il presente in cambio del futuro. Non so cosa ci fa ancora credere che un futuro migliore non possa fare a meno di un presente peggiore.

I pedagogisti che ho frequentato mi hanno raccontato che anche nella loro ricerca non fanno altro che parlare del rapporto che esiste tra educazione e relazione. Un rapporto che purtroppo è ancora caratterizzato da una scelta conflittuale.

E da una posizione sbilanciata: l’educazione è sempre e comunque più importante della relazione.

Così, se la relazione non crea problemi alle pretese dell’educazione, tutto funziona per il meglio. Resta l’idea che in caso di cattivo funzionamento non si deve mettere in discussione l’educazione e i suoi strumenti, ma la relazione che si è messa di traverso sulla strada indicata dall’educazione.

Quando però l’educazione non ottiene “con le buone” quello che si propone, prende immediatamente le distanze dalla relazione e dai suoi bisogni (la pazienza, la parità, il rifiuto di accettare che la forza rompa i legami di fiducia), accusandola di viziare, di non sapersi imporre (!) .

Quando questo succede, e succede molto spesso, in tutte le forme di relazione, sia affettiva che scolastica (a proposto, chi l’ha detto che la scuola non debba essere il luogo dove è più facile, che in famiglia, coltivare l’affettività?), l’educazione smette di parlare con la relazione, della quale non ha mai profondamento condiviso gli strumenti e le scelte.

Così, rotto il loro fragile contratto, la relazione esce di scena e frequenta di nascosto la cortesia (magari con un senso di colpa, perché è così che le hanno detto che si rovinano i ragazzi), mentre l’educazione si butta tra le braccia del suo vecchio amore, quella dose minima di maltrattamento che le garantisce (pur con i molti insuccessi di cui non vuole parlare) di ottenere i risultati che si propone: tracciare un confine molto netto tra i buoni e i cattivi, tra gli adatti e i non adatti. Alla fine la scelta etica, nel rapporto con i bambini, non è tra educazione e relazione, ma tra scortesia e cortesia.

Per questo penso che occorra rifondare le idee soggiacenti dell’educazione e liberarla dai vincoli che le impongono i suoi strumenti preferiti: la valutazione e la punizione.

Nessun dubbio che fino ad ora l’unico modello educativo sperimentato sia stato quello correttivo: noi sapevamo loro no. Noi insegnavamo, loro imparavano.

In questo senso la prima parte del libro di André Stern: “Non sono mai andato a scuola. Storia di una infanzia felice” ci racconta un modello di trasferimento di competenze che non passa mai attraverso l’idea che bisogno sollevare i ragazzi dalla loro ignoranza, facendoli sentire ignoranti, incompetenti, inadeguati.

Questo modello, molto legato al mestiere, è stato passato senza modifiche nel mondo della cultura.

Noi sappiamo cosa devono sapere.

Modello molto meccanico: si conosce il punto di partenza e quello di arrivo: ultimamente proprio mentre alcuni stanno cercando di sperimentare qualche variazione sul viaggio, gli hanno messo fretta: bisogna correre, il lavoro non aspetta.

Se la scuola fosse un luogo di trasferimento consapevole della ricerca su come costruire le relazioni (invece di considerare la relazione come qualcosa di cui non è necessario occuparsi, lasciando che nei ragazzi si sviluppi l’idea dell’unico modello proposto, o sopra o sotto, mentre sono impegnati a non deludere le aspettative di chi insegna), e quindi aiutasse e stimolasse una riflessione sullo stare bene insieme come condizione irrinunciabile alla costruzione di una società di “saperi” e di buon vicinato, avremmo a disposizione molte domande a cui tentare di dare risposte, insieme ai ragazzi, abbandonando i luoghi che siamo autorizzati a frequentare solo noi.

La differenza fondamentale tra educazione come correzione ed educazione come accompagnamento sta nella rinuncia, senza se e senza ma, alla rottura dei legami fiducia.

Potrei dire che va creata una cultura che rifiuta la scortesia, il maltrattamento, il preconcetto e, più in generale, l’idea di una nostra superiorità.

La correzione è utile quando non interrompe il processo di scoperta, anzi lo accompagna, e non mette in crisi la fiducia che fa da legante tra chi impara e chi insegna.

Accompagnamento significa saper essere compagni di avventura, ognuno con le sue competenze e le sue risorse (noi conosciamo di più, loro sono più disponibili di noi a conoscere il nuovo), su un piano paritario, rispettoso, amichevole (una relazione educativa viene percepita solo in due modi: amichevole o nemichevole).

Accompagnare vuol dire essere disponibili a scoprire quello che ancora non abbiamo trovato (soprattutto sul piano della relazione, dove la posizione debole ha sempre molte più idee della posizione forte), rispettando i tempi e i bisogni (le preferenze) di chi ci appare più lento solo perché sta sperimentando; apprezzando i suoi tentativi (invece di correggerli) in attesa che si sviluppino in conoscenze anche attraverso il nostro contributo.

Non è l’atto in sé del correggere che non va bene, è il modo e l’intenzione. Se le correzioni fanno parte di una relazione che funziona, e che quindi ascolta i segnali d’arresto come momenti utili di riflessione, le correzioni aiutano, non misurano.

In ultimo sono propenso a credere che in campo relazionale non esiste una distinzione di ruoli o di funzioni. Il tema è come far sì che la relazione non subisca danni dai processi di apprendimento (sia a livello familiare che professionale).

Penso infatti che la relazione con gli altri faccia da matrice alla relazione con noi stessi (mi hanno trattato bene continuo a trattarmi bene. Mi tratto bene, tratto bene tutto quello con cui vengo in relazione).

Dobbiamo tenere presente che il materiale “relazionale” che viene usato, proprio per la morbidezza legata all’età e per l’impossibilità di trovare alternative, indurisce molto presto e quindi non è più modificabile facilmente.

Altro discorso va fatto per la valutazione e la punizione.

La valutazione sta a cavallo tra l’educazione come correzione e educazione come accompagnamento.

Occorre ricordare che noi valutiamo con due intenzioni. La prima è definire il livello di apprendimento (voto basso voto alto). In questo caso i bambini e i ragazzi reagiscono alla valutazione come se fosse un segnale di non amabilità: è più amato chi è bravo. La valutazione poi apre il discorso sul senso della giustizia: ci sarà un motivo se i ragazzi hanno un senso della giustizia diverso da chi li valuta, e questo motivo andrebbe esplorato, accompagnandoli.

La seconda è definire il livello di apprendimento, ma con lo scopo di capire cosa possiamo fare per rendere l’apprendimento più facile e mantenere nei ragazzi la curiosità e la passione necessari ad apprendere.

In questo caso la valutazione non peggiora la relazione tra insegnante e studente, ma serva all’insegnante per meglio accompagnare chi apprende.

Quindi anche la valutazione, come la correzione, può far parte di un modo affettuoso di accompagnare i ragazzi alla scoperta del mondo che li circonda, delle loro capacità e delle loro preferenze.

La punizione, invece, che si può esprimere anche nel modo in cui si sentono valutati e corretti, non ha cittadinanza nell’educazione come accompagnamento.

Il motivo è che la punizione va sempre dall’alto al basso, e quindi cala da chi insegna su chi apprende. Ma non si ferma. Il danno maggiore lo può fare nel momento in cui chi apprende deve trovare qualcuno su cui agire il proprio potere: ecco che molti ragazzi imparano ad avere comportamenti maltrattanti o punitivi con se stessi e con gli altri che considerano “minori”.

DMU Timestamp: May 26, 2018 14:45





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