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Renato Palma: Educazione come accompagnamento


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La relazione con i bambini, fin dal loro arrivo nella nostra vita, da qualche tempo è alla ricerca di un equilibrio molto instabile tra gli obiettivi dell’educazione e la necessità di non rompere il rapporto di fiducia, che poggia le sue fondamenta sulla rinuncia di sentirsi superiori a loro.

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Spesso la asimmetria, ovvia, di competenze, si trasforma in una asimmetria di potere, mettendo i nostri nuovi compagni di viaggio nella posizione di minori.

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All’inizio i bambini si fidano di noi. Poi progressivamente cambiano idea, e la cambiano per l’esperienza che accumulano giorno dopo giorno.

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Noi abbiamo la pretesa che loro siano come li vogliamo, che condividano le nostre idee e le nostre abitudini. Per ottenere questo risultato siamo disponibili ad assumere comportamenti che almeno alcuni di noi non condividono ma che si vedono costretti a scegliere per i vincoli a contorno. La pressione sociale, l’identità di appartenenza, gli automatismi acquisiti, l’impregnazione pedagogica ci liberano dalla responsabilità di restare in rapporto, di mantenere l’intimità, di ricevere informazioni sul gradimento che le nostre scelte ottengono da coloro che, non dimentichiamolo, sono obbligati a stare in rapporto con noi, senza alternative.

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È la certezza del fin di bene. Lo faccio per te. Vedrai che alla fine ti sarà utile.

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È il mercato più vecchio del mondo: vendi il presente in cambio del futuro. Non so cosa ci fa ancora credere che un futuro migliore non possa fare a meno di un presente peggiore.

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I pedagogisti che ho frequentato mi hanno raccontato che anche nella loro ricerca non fanno altro che parlare del rapporto che esiste tra educazione e relazione. Un rapporto che purtroppo è ancora caratterizzato da una scelta conflittuale.

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E da una posizione sbilanciata: l’educazione è sempre e comunque più importante della relazione.

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Così, se la relazione non crea problemi alle pretese dell’educazione, tutto funziona per il meglio. Resta l’idea che in caso di cattivo funzionamento non si deve mettere in discussione l’educazione e i suoi strumenti, ma la relazione che si è messa di traverso sulla strada indicata dall’educazione.

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Quando però l’educazione non ottiene “con le buone” quello che si propone, prende immediatamente le distanze dalla relazione e dai suoi bisogni (la pazienza, la parità, il rifiuto di accettare che la forza rompa i legami di fiducia), accusandola di viziare, di non sapersi imporre (!) .

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Quando questo succede, e succede molto spesso, in tutte le forme di relazione, sia affettiva che scolastica (a proposto, chi l’ha detto che la scuola non debba essere il luogo dove è più facile, che in famiglia, coltivare l’affettività?), l’educazione smette di parlare con la relazione, della quale non ha mai profondamento condiviso gli strumenti e le scelte.

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May 27
Antonio Vigilante Antonio Vigilante (May 27 2018 3:15AM) : La relazione a scuola [Edited] more

La relazione a scuola ha modalità che la distinguono nettamente da altre forme di relazione educativa. E’ una relazione che si pretende viva, perché mediata dalla cultura e dai valori, ma che ha spesso la rigidità, la freddezza, la miseria di una relazione burocratica. In un contesto educativo è possibile (inevitabile, direi) litigate. In un contesto scolastico il litigio sfogia nel rapporto disciplinare, ossia in un testo scritto nel quale il docente biasima la condotta dello studente, e così facendo la corregge, o pretende di correggerla. SI tratta di un comportamento che al di fuori della scuola apparirebbe patologico.

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May 28
Antonio Vigilante Antonio Vigilante (May 28 2018 11:15AM) : La replica di Renato Palma [Edited] more

Credo che tu descriva in modo molto chiaro la realtà in cui viviamo.

In questa ricerca mi piacerebbe che il campo fosse libero e che noi potessimo riflettere sulla progettazione di un luogo che ancora esiste solo nei nostri desideri di benessere.

Ho scritto due articoli, cercando di scherzare, su questo argomento.
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Il destino e l’invenzione della scuola

Pubblicato il 25 novembre 2017

Era da un po’ di tempo che osservavano e riflettevano. Si sa che i Sissipole amano osservare e riflettere. E dopo tanto osservare e riflettere alcuni di loro si posero una domanda:

Possibile che il figlio del fabbro debba fare il fabbro e quello del falegname il falegname e quello del muratore il muratore?

Fermati, disse un sissipole amante del silenzio al sissipole chiacchierone, abbiamo capito, non ci servono altri esempi. Peccato, rispose, perché volevo anche chiedervi se non vi sembra strano che il figlio del re sia destinato a fare il re.

La parola destino, lo saprete certamente, era una parola che i sissipole non amavano usare. Loro avevano in mente di cambiare in meglio la loro vita, e questo lo sapevano, e pensavano che non potevano perdere tempo a pensare che tutto fosse nelle mani del destino (sicuramente un simpatizzante degli Unsipole).

Quindi non si soffermarono a chiarire come e perché loro non credevano nel destino, ma piuttosto nella responsabilità individuale. Quello che stava dicendo il loro amico Sissipole aveva qualcosa di veramente nuovo, per cui cominciarono a fioccare le domande.

Intendi dire che tu vorresti che il figlio del fabbro non fosse obbligato a fare il fabbro e via dicendo? E magari ti riferisci al fatto che potrebbe essere che il figlio del fabbro abbia talento per la falegnameria e non può imparare il mestiere solo perché il suo babbo non fa il falegname? Ma quanto sono intelligenti i Sissipole e come si capiscono al volo tra di loro.

La risposta non si fece attendere.

Certo, entrambe le cose, e c’è anche dell’altro. Io penso che i nuovi arrivati siano molto più elastici di noi e apprendano molto prima di noi. È una idea che mi ronza da tempo nella testa, ma non riesco a capire bene che cosa ne può venire fuori. Per questo ne parlo con voi.

Questa, in effetti, era una buona abitudine di tutti i Sissipole. Quando a qualcuno veniva in mente qualcosa, si riunivano e ne parlavano. Le loro riunioni qualche volta finivano con una nuova invenzione (che ne so, la forchetta o il cucchiaio, per non parlare del bicchiere e del piatto), ma molto più spesso, quando la fantasia superava di troppo la realtà, molti si salutavano dicendo: non ho capito quello che vorresti fare, ma sappi che non sono contrario, se solo riesci a spiegarmelo.

Questo era uno di quei casi.

Tanto che fu necessario riunirsi più e più volte, ma alla fine riuscirono a capirsi. L’intellettuale del gruppo stava parlando di una cosa assolutamente entusiasmante e innovativa. Si trattava di trovargli un nome, e cerca e prova decisero che SCUOLA suonava molto bene. Come sapete, disse il teorico di questa nuova cosa, ai Sissipole non è mai piaciuto che i loro piccoli non avessero almeno tre scelte di fronte a una possibilità.

Perché tre e non due, chiese il solito curiosone. Perché due ce le ha anche il computer, rispose il solito avventuristico e fantasioso Sissipole. Nessuno osò chiedere cosa fosse un computer e la discussione si trasferì finalmente sul lato pratico.

Dunque una scuola, dici. E, per favore, che cos’è una scuola?

Il saggio Sissipole ci pensò un po’, non voleva mettere in difficoltà i suoi amici. Poi cominciò disegnando sul terreno una casetta, con due finestre e un portone, un tetto spiovente e sopra il portone una scritta: SCUOLA, appunto.

A me sembra che sia né più né meno come le nostre case. Vero, ma quella è la casa dei bambini, un posto dove possono passare del tempo divertendosi e imparando, al riparo dalle difficoltà che non sono ancora in grado di affrontare.

I bambini hanno già la casa dei loro genitori. Sicuro, ma la SCUOLA, per quello che riesco a immaginare, dovrebbe essere un posto diverso, nel quale, per l’appunto, il figlio del …..

Non lo lasciarono finire. Abbiamo capito, tu vorresti una casa dei bambini nella quale i bambini si divertono e possono imparare quello verso cui si sentono più portati? Certamente, disse il primo Sissipole, felice di aver comunicato bene la propria idea. Bene, hai un’idea di come possiamo fare?

Sai che ogni volta che abbiamo una buona idea dobbiamo sottoporla agli Unsipole, e sai che cosa ci risponderanno. Certo che lo so. Ma io ho un’idea, e vorrei provare a parlarci.

Detto fatto una delegazione di Sissipole, indossati gli abiti delle grandi occasioni, andarono al palazzo del governo. Aspettarono il tempo necessario a farsi ricevere. Tanto, come al solito. Girava voce che fossero considerati dei rompiscatole e l’idea di farli aspettare era che in quel modo si sarebbero stancati e sarebbero tornati a casa. Cosa che qualche volta succedeva. Ma non quella volta: si trattava di dare ai propri bambini un futuro migliore. Poi entrarono al cospetto del rappresentante del re, che li accolse con una certa sufficienza.

Che cosa avete da proporre questa volta? chiese.


La scuola e il potere

Pubblicato il 9 dicembre 2017 in La Facile Felicità

È difficile immaginare una scuola diversa da quella di adesso?

Che ingenui questi Sissipole, mannaggia. Ci cascavano tutte le volte.

Gli Unsipole avevano dato ampia prova di sapere come fare a rendere la vita un’esperienza noiosa, ripetitiva, litigiosa: “nessun cambiamento e già sono contento” era il loro motto.

La scuola era stata pensata come un luogo dove stare bene a imparare e dove tutti sarebbero stati trattati allo stesso modo, cioè con gentilezza: figli di poveri e di ricchi, quelli più dotati di intelligenza e quelli più dotati di affetto. Tutti insieme. Alla pari.

Ma dove si sarebbe andati a finire se si fosse realizzato questo semplice progetto? Era impossibile per gli Unsipole immaginare una società senza potere: le donne uguali agli uomini? I bambini con gli stessi diritti degli adulti? Via non scherziamo: i Sissipole erano veramente socialmente pericolosi.

Parlavano dell’affetto come di una forma di intelligenza molto raffinata, e pensavano di ingannare gli Unsipole. Che invece avevano capito benissimo che una scuola pensata così rappresentava una alternativa alla stabilità del potere. Occorreva invece insegnare fin da subito chi comanda e cosa bisogna fare per imparare a comandare. Questo sarebbe stata la scuola: fecero un’assemblea (anche questa idea della democrazia l’avevano avuta i Sissipole: un’altra incredibile perdita di tempo) e “democraticamente” la maggioranza ebbe ragione della sparuta minoranza dei Sissipole.

Dunque scacciarono dalla scuola, uno alla volta, il rispetto delle preferenze dei bambini, il divertimento, la cortesia, il gioco: fu in questo modo che la scuola diventò un’incubatrice capace di immettere nel mondo del potere solo Unsipole.

Gli Unsipole avevano e hanno una grande esperienza alle loro spalle: quindi sapevano come fare. Bastava trasformare la scuola in un luogo di potere degli adulti, appunto. Una fabbrica di regole, con orari da rispettare, compiti da fare, divieto di sbagliare e un sacco di altre difficoltà, tipo interrogazioni a sorpresa.

La scuola smetteva di essere una passeggiata panoramica verso l’età adulta per trasformarsi in una trincea nella lotta tra adulti e giovani. Dunque iniziarono i compiti per casa, poi quelli per le vacanze, le interrogazioni, l’alto e il basso, il più e il meno. Le note da far leggere ai genitori, la paura di sbagliare. Le insonnie, i litigi per costringerli a studiare. La preoccupazione delle bocciature.

Fatto, si dissero gli Unsipole e tornarono a disinteressarsi della scuola.

Alcuni piccoli Sissipole si adattarono, altri chiesero ai genitori di poter tornare a casa, di fare una scuola tra amici. Magari di essere affidati ai nonni, che avevano più tempo e sembravano più disponibili e meno irritabili. E anzi mostravano un gran piacere a stare con loro.

I Sissipole si dissero disposti a farlo, ovviamente, ma in questo modo avevano paura di proteggere troppo i propri figli; di non esporli abbastanza alle frustrazioni che gli Unsipole ritenevano indispensabili a imparare ad affrontare le difficoltà della vita. Un Sissipole adulto, poi, per quanto disponibile, si trascina sempre dietro la paura di sbagliare, e di essere giudicato un genitore che con la sua cedevolezza fa danno ai suoi figli.

Certo andavano a parlare con gli insegnanti, chiedendo di lasciare più tempo ai loro figli. Ma quelli rispondevano inflessibili che tutto quello che facevano lo facevano per il bene dei ragazzi; e la discussione finiva lì, anche perché coloro che insistevano diventavano antipatici rompiscatole con le conseguenze sui propri figli che forse non riuscite neanche a immaginarvi.

Così le cose prendevano una brutta piega, perché anche quei genitori che cercavano di fare i Sissipole, senza farsi scoprire, a furia di litigare con i figli, diventavano sempre più Unsipole.

E non si può qui, e non si può là, i bambini si sentivano tra l’uscio e il muro: da una parte la scuola, dall’altra i genitori che cercavano di non mettersi in contrasto con la scuola.

E così lo spazio affettivo, pieno di “sì”, certo, per favore, grazie, se puoi, anche tra un po’, come stai? Di cosa vuoi parlarmi?” stava trasformandosi in un vivaio di scortesie e di conflitti, di relazioni “utilmente asimmetriche”.

Non che gli Unsipole ci stessero bene: ma loro erano certi che il motivo della loro fatica e malessere era solo la maleducazione dei ragazzi e che con un altro piccolo conflitto per piegarli a comportamenti più obbedienti tutto sarebbe tornato a essere idilliaco.

La scuola però, contro ogni aspettativa, continuava a rappresentare per gli Unsipole un pericolo che avrebbero fatto meglio a non sottovalutare. Perché sempre più spesso capitava di trovare insegnanti Sissipole, e addirittura dirigenti Sissipole, che avevano a cuore il benessere dei loro ragazzi e che sapevano abbinare, facendo meno fatica, gli ottimi risultati con il piacere di stare insieme.

Questo poteva essere spiegato solo in un modo: alcuni Unsipole si stufavano di lottare quotidianamente rovinandosi la vita, e si accorgevano, quando provavano a cambiare atteggiamento, di avere accanto insospettabili Sissipole, pronti a fare gruppo. Alla fine la scuola stava scappando dalle mani del potere: perché il rischio più grande per un Unsipole sono i bambini, e a scuola sono veramente tanti.

Frequentarli tutti i giorni, vedere la loro gioia e il loro entusiasmo, la fiducia che sono disponibili a dare, la loro disponibilità a collaborare se solo si sentono trattati bene, apre una breccia nella memoria degli Unsipole più sensibili, li porta a riflettere e a voler smettere di combattere la quotidiana battaglia delle regole.

Così sempre più Unsipole si arrendono all’evidenza che l’affetto è meglio della guerra e tornano a sorridere e, non ci crederete, vanno a scuola di buon umore. Come i loro preziosissimi compagni di avventura con i quali esplorano lo sconfinato campo dell’affetto e della conoscenza.


Il dire che la relazione a scuola “gode” di uno status che le permette di differenziarsi da altre forme educative ha il pregio di mettere un masso in mezzo alla strada che potrebbe rendere più evidente la necessità di riflettere per rendere più viabile la nostra ricerca.

Anche perché, partendo dall’esistente, rischiamo di non prendere in considerazione l’idea che sia possibile privilegiare la qualità della relazione per raggiungere, con meno fatica e meno perdite, gli scopi educativi: è da una buona relazione che nasce una buona educazione. Non sempre, invece, si può sostenere che da una buona educazione nasca una buona relazione (spesso i più educati hanno dovuto imparare ad avere una relazione faticosa con sé stessi per raggiungere l’obiettivo di non essere trattati male). Se lo ritieni necessario possiamo fare degli esempi.

Il fatto che si desideri fare della relazione scolastica una relazione viva implica che i valori e la cultura a cui fare riferimento siano di nutrimento a un modo di stare insieme e di imparare insieme che rifiuti, categoricamente, che la forza si frapponga tra due persone e degradi una relazione di insegnamento, apprendimento e, possiamo dire, di accompagnamento, in una questione di potere, con tutte le conseguenze negative che comporta sulle regole sociali dello stare insieme.

Se in un contesto educativo è possibile, e addirittura inevitabile, litigare, partendo dall’innegabile vantaggio di un palese sbilanciamento del potere, dobbiamo tenere presente che i risultati saranno quelli che verifichiamo, e critichiamo, quotidianamente e cioè che litigare per educare educa a litigare.

In ultimo, la scuola, non quella che abbiamo ereditato e che ha condizionato la nostra fantasia e capacità di immaginazione, ma quella che vorremmo creare su basi paritarie tra chi insegna e chi apprende, non può giustificare comportamenti che, fuori dalla scuola o dalla dimensione educativa che la scuola incarna, sarebbero considerati o patologici o scorretti e ingiustificabili.

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Così, rotto il loro fragile contratto, la relazione esce di scena e frequenta di nascosto la cortesia (magari con un senso di colpa, perché è così che le hanno detto che si rovinano i ragazzi), mentre l’educazione si butta tra le braccia del suo vecchio amore, quella dose minima di maltrattamento che le garantisce (pur con i molti insuccessi di cui non vuole parlare) di ottenere i risultati che si propone: tracciare un confine molto netto tra i buoni e i cattivi, tra gli adatti e i non adatti. Alla fine la scelta etica, nel rapporto con i bambini, non è tra educazione e relazione, ma tra scortesia e cortesia.

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Per questo penso che occorra rifondare le idee soggiacenti dell’educazione e liberarla dai vincoli che le impongono i suoi strumenti preferiti: la valutazione e la punizione.

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Nessun dubbio che fino ad ora l’unico modello educativo sperimentato sia stato quello correttivo: noi sapevamo loro no. Noi insegnavamo, loro imparavano.

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In questo senso la prima parte del libro di André Stern: “Non sono mai andato a scuola. Storia di una infanzia felice” ci racconta un modello di trasferimento di competenze che non passa mai attraverso l’idea che bisogno sollevare i ragazzi dalla loro ignoranza, facendoli sentire ignoranti, incompetenti, inadeguati.

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Questo modello, molto legato al mestiere, è stato passato senza modifiche nel mondo della cultura.

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Noi sappiamo cosa devono sapere.

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Modello molto meccanico: si conosce il punto di partenza e quello di arrivo: ultimamente proprio mentre alcuni stanno cercando di sperimentare qualche variazione sul viaggio, gli hanno messo fretta: bisogna correre, il lavoro non aspetta.

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Se la scuola fosse un luogo di trasferimento consapevole della ricerca su come costruire le relazioni (invece di considerare la relazione come qualcosa di cui non è necessario occuparsi, lasciando che nei ragazzi si sviluppi l’idea dell’unico modello proposto, o sopra o sotto, mentre sono impegnati a non deludere le aspettative di chi insegna), e quindi aiutasse e stimolasse una riflessione sullo stare bene insieme come condizione irrinunciabile alla costruzione di una società di “saperi” e di buon vicinato, avremmo a disposizione molte domande a cui tentare di dare risposte, insieme ai ragazzi, abbandonando i luoghi che siamo autorizzati a frequentare solo noi.

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La differenza fondamentale tra educazione come correzione ed educazione come accompagnamento sta nella rinuncia, senza se e senza ma, alla rottura dei legami fiducia.

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Potrei dire che va creata una cultura che rifiuta la scortesia, il maltrattamento, il preconcetto e, più in generale, l’idea di una nostra superiorità.

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La correzione è utile quando non interrompe il processo di scoperta, anzi lo accompagna, e non mette in crisi la fiducia che fa da legante tra chi impara e chi insegna.

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Accompagnamento significa saper essere compagni di avventura, ognuno con le sue competenze e le sue risorse (noi conosciamo di più, loro sono più disponibili di noi a conoscere il nuovo), su un piano paritario, rispettoso, amichevole (una relazione educativa viene percepita solo in due modi: amichevole o nemichevole).

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Accompagnare vuol dire essere disponibili a scoprire quello che ancora non abbiamo trovato (soprattutto sul piano della relazione, dove la posizione debole ha sempre molte più idee della posizione forte), rispettando i tempi e i bisogni (le preferenze) di chi ci appare più lento solo perché sta sperimentando; apprezzando i suoi tentativi (invece di correggerli) in attesa che si sviluppino in conoscenze anche attraverso il nostro contributo.

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Non è l’atto in sé del correggere che non va bene, è il modo e l’intenzione. Se le correzioni fanno parte di una relazione che funziona, e che quindi ascolta i segnali d’arresto come momenti utili di riflessione, le correzioni aiutano, non misurano.

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In ultimo sono propenso a credere che in campo relazionale non esiste una distinzione di ruoli o di funzioni. Il tema è come far sì che la relazione non subisca danni dai processi di apprendimento (sia a livello familiare che professionale).

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Penso infatti che la relazione con gli altri faccia da matrice alla relazione con noi stessi (mi hanno trattato bene continuo a trattarmi bene. Mi tratto bene, tratto bene tutto quello con cui vengo in relazione).

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Dobbiamo tenere presente che il materiale “relazionale” che viene usato, proprio per la morbidezza legata all’età e per l’impossibilità di trovare alternative, indurisce molto presto e quindi non è più modificabile facilmente.

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Altro discorso va fatto per la valutazione e la punizione.

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La valutazione sta a cavallo tra l’educazione come correzione e educazione come accompagnamento.

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Occorre ricordare che noi valutiamo con due intenzioni. La prima è definire il livello di apprendimento (voto basso voto alto). In questo caso i bambini e i ragazzi reagiscono alla valutazione come se fosse un segnale di non amabilità: è più amato chi è bravo. La valutazione poi apre il discorso sul senso della giustizia: ci sarà un motivo se i ragazzi hanno un senso della giustizia diverso da chi li valuta, e questo motivo andrebbe esplorato, accompagnandoli.

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La seconda è definire il livello di apprendimento, ma con lo scopo di capire cosa possiamo fare per rendere l’apprendimento più facile e mantenere nei ragazzi la curiosità e la passione necessari ad apprendere.

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May 27
Antonio Vigilante Antonio Vigilante (May 27 2018 4:37AM) : Valutazione more

Anche stabilire il livello di apprendimento è cosa tutt’altro che facile, soprattutto in una scuola, come quella italiana, nella quale le pratiche mneoniche sono ampiamente diffuse. Quello che accade, spesso, è la riproduzione orale di un testo scritto; e può succedere che uno studente che ad un compito scritto ha riprodotto parola per parola, virgola per virgola, il libro di testo, protesti di non aver copiato, ma di aver semplicemente imparato a memoria.
L’unico modo per verificare se c’è un apprendimento reale è quello di utilizzare prove di competenza. Se sei chiamato a fare qualcosa, ad utilizzare le conoscenza per risolvere un problema o analizzare una realtà, la memoria può servire a poco. E tuttavia la didattica per competenze trova nella scuola italiana resistenze molto forti, accusata di essere al servizio del neoliberismo.

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May 29
Renato Palma Renato Palma (May 29 2018 2:45AM) : Valutazione more

Una possibilità potrebbe essere stabilire a cosa serva valutare.
E, soprattutto, a cosa serve essere valutati.
E quale stato d’animo nasce in coloro che valutano e in coloro che sono valutati.
C’è un modello di valutazione che è divisorio, io osservo e valuto, tu devi solo farti valutare e le conseguenze della mia valutazione ricadranno soprattutto su di te.
Oppure la valutazione serve a capire cosa posso fare per meglio accompagnarti nella comprensione di quello che ti sto proponendo. Ancora una volta non è lo strumento in sé che viene messo in discussione, e che può essere migliorato secondo i tuoi suggerimenti, ma gli effetti che ha sulla relazione e che spesso sono pensati come inevitabili e quindi non modificabili

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Jun 4
Antonio Vigilante Antonio Vigilante (Jun 04 2018 12:32PM) : Valutazione more

Da diversi anni valuto i miei studenti in modo collegiale: chiedo il voto allo studente, poi alla classe, quindi dico la mia. Nella gran parte dei casi c’è una corrispondenza quasi piena tra il voto proposto dagli studenti e quello che ho in mente io. Se così non è, per me è importantissimo saperlo, perché quando uno studente prende un voto che pensa di non meritare – o quando la classe pensa che uno studente abbia preso un voto che non meritava, sia in positivo che in negativo – si crea un senso di frustrazione che minaccia la relazione. In questo caso ho bisogno di parlare con lo studente e chiarirgli i miei criteri di valutazione, aiutandolo a capire in cosa ha bisogno di migliorare. Ma può anche succedere che questa differenza di valutazione aiuti me a capire che sto sbagliando. Mi è successo quest’anno, ad esempio, di aver proposto un voto inferiore a quello proposto dalla classe per un ragazzo straniero. La classe mi ha fatto notare che stavo valutando la singola interrogazione, ma c’era da tener conto anche dei progressi notevoli che il loro compagno aveva fatto, anche nell’uso della lingua italiana e nella sicurezza espositiva.
E’ il modo più democratico di valutare che conosco. Ma non basta a fugare le mie inquietudini. Cosa valutare? Come? Il fatto che tutta la classe, me compreso, sia d’accordo con una valutazione vuol dire che quella valutazione è esatta, o che siamo tutti abituati ad una certa idea di “verifica fatta bene”.

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Aug 18
Daniele Mangiola Daniele Mangiola (Aug 18 2018 6:15PM) : Autovalutazione e valutazione reciproca [Edited] more

Concordo. Aggiungo delle considerazioni sul perché a mio avviso la scuola, anche questa scuola che abbiamo, con tutte le sue criticità, dovrebbe incentivare modalità di valutazione che coinvolgano lo studente e la classe.

Autovalutazione – Oltre che ad informare l’insegnante del punto di vista dello studente, l’autovalutazione è parte stessa della didattica per il fatto che educa lo studente ad analizzare la qualità del proprio operato nelle diverse situazioni in cui si trova.
Lo educa alla autodisciplina.
Gli apre strade per cercare e trovare motivazioni operative nelle imprese in cui si trova coinvolto. Nella vita reale non esiste soltanto il lavoro dipendente nel quale ci si trovi ad essere valutati, come a scuola, da un superiore, esistono anche mille situazioni in cui la presenza a se stessi, la capacità di analisi del proprio impegno è competenza importante.

Valutazione reciproca – La scuola così come è adesso, centrata sulla figura dell’autorità dell’insegnante, non favorisce la creazione del gruppo, la socialità, sebbene predichi di farlo. Crea il gregge, i meccanismi gregari, ma non il gruppo, non la relazione reciproca bensì tante relazioni in una sola direzione, l’insegnante.
Un gruppo-classe inteso come una rete di relazioni reciproche implica la coscienza di essere l’uno di fronte all’altro, reciprocamente.
Alla valutazione negativa dell’insegnante alla fine ci si abitua, si smette di prenderla in considerazione e essa cessa di essere stimolo a fare meglio, ci si arrocca sulla differenza di ruoli e si diventa insensibili all’effetto correttivo che quella valutazione pretenderebbe di avere. La valutazione del gruppo dei pari invece ha un effetto diverso, costringe al rispecchiamento.
Educare già da molto presto, almeno dalle scuole medie, ma probabilmente anche da prima, gli allievi alla valutazione reciproca, oltre che incentivare e rafforzare la socialità e la rete delle relazioni, ha anche un effetto etico. Spesso il soggetto disturbante diventa tale in conseguenza di un conflitto che non si risolve con uno o più insegnanti. Il conflitto può arrivare a diventare guerra aperta e portare anche scompiglio e il ragazzo, tutto preso dalla carica di sentimenti negativi sospende il giudizio su di sé, non si censura più, dimentico dei problemi che eventualmente crea al resto dei pari. Ciò perché il suo unico referente reale è dall’altra parte della barricata, l’insegnante.
Molte situazioni problematiche neanche sorgerebbero, o perlomeno non degenererebbero oltre certi limiti, in un contesto in cui il singolo sapesse di essere guardato anche dai compagni. In un contesto di giudizio reciproco. Democratico. Dove, peraltro, i punti di vista sulle situazioni sono diversi e dunque il singolo non si trova o dalla parte del torto oppure da quello della ragione, bensì riceve su di sé valutazioni complesse.
In consegnenza di questo discorso, aggiungo, il gruppo-classe dovrebbe essere sempre coinvolto a valutare le situazioni che prevederebbero degli interventi sanzionatori

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In questo caso la valutazione non peggiora la relazione tra insegnante e studente, ma serva all’insegnante per meglio accompagnare chi apprende.

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Quindi anche la valutazione, come la correzione, può far parte di un modo affettuoso di accompagnare i ragazzi alla scoperta del mondo che li circonda, delle loro capacità e delle loro preferenze.

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La punizione, invece, che si può esprimere anche nel modo in cui si sentono valutati e corretti, non ha cittadinanza nell’educazione come accompagnamento.

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Il motivo è che la punizione va sempre dall’alto al basso, e quindi cala da chi insegna su chi apprende. Ma non si ferma. Il danno maggiore lo può fare nel momento in cui chi apprende deve trovare qualcuno su cui agire il proprio potere: ecco che molti ragazzi imparano ad avere comportamenti maltrattanti o punitivi con se stessi e con gli altri che considerano “minori”.

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DMU Timestamp: May 26, 2018 14:45

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