ATREO
Sono al di sopra di tutti, tra le stelle, tocco il cielo più alto con la mia testa superba. Ora, soltanto ora, è mia tutta la gloria del regno, mio il trono di mio padre. Gli dèi, io li congedo: tutti i miei voti sono soddisfatti. È bene, più che bene, e così basta anche per me. Basta? E perché mai? Posso spingermi più avanti, io. Rimpinzerò il padre col funerale dei suoi figli. Ecco, la luce se ne è andata, perché la vergogna non mi fermi. Avanti, finché il cielo è vuoto. Potessi trattenerli, gli dèi che fuggono da me, potessi trascinarli qui a forza, tutti quanti, a vedere il banchetto vendicatore. Lo vedrà il padre, e mi basta. La luce si rifiuta? Ebbene, scaccerò io le tenebre sotto cui le sue sventure si nascondono. È troppo che banchetti con quella faccia ridente, sicura. Di cibo e di vino, ne hai già avuto abbastanza. Per una sventura così grande io ti voglio sobrio, Tieste. Avanti, servi, spalancate la porta del palazzo, che la si veda tutta, questa casa in festa! Voglio guardarlo bene, io, mentre scopre le teste dei suoi figli, e che volto farà, che parole griderà nel primo strazio, o come si farà rigido il suo corpo nel perdere i sensi. Questo è il guadagno della mia opera. Non voglio vederlo disperato ma mentre diviene disperato... È tutto aperto, il palazzo, brilla di cento fiaccole. Eccolo là, sdraiato in mezzo alla porpora e all'oro. Si tiene su con la mano la testa pesante per il vino. Rutta. C'è un dio più grande di Atreo? Io sono il re dei re! Non speravo tanto. Com'è sazio, come trinca dal boccale d'argento... Non lo risparmia, il vino. Sangue me ne resta ancora, di tante vittime. Il vino vecchio, col suo colore, lo nasconderà... Suvvia, con questa coppa si concluda il banchetto. Beva il padre col vino il sangue dei suoi figli. Lui avrebbe bevuto il mio. Canta, adesso, e parla, tutto contento, non è più padrone di sé.
TIESTE (fra sé)
Scacciali, i pensieri che ti assediano, anima inebetita dal dolore. Tristezza, vattene, vattene, paura, e anche tu, amara miseria, triste compagna del tremebondo esilio, e tu, vergogna che sulle disgrazie ti precipiti. Quel che conta è da dove cadi, più che dove. Per chi precipita dall'alto, è nobile posare il piede con fermezza; per chi è travolto da una valanga di pene, nobile sopportare, senza chinar la testa, il peso di un regno che fu grande, e sostenere non vinto, non avvilito dai mali, ma in piedi, le macerie che crollano addosso. Ma ora, via da te le ombre del tuo crudele destino, via ogni traccia del tempo della miseria. Nel momento della letizia, ritorni sereno il tuo volto. Scaccialo dal tuo cuore, il vecchio Tieste... È questo il torto degli sventurati: non credere mai alla buona sorte. Anche se torna la felicità, non sanno goderne, gli afflitti. Perché mi ammonisci? Perché non vuoi che festeggi questo giorno? Perché mi ordini di piangere se non c'è motivo di dolore? Perché mi proibisci di cingermi i capelli con questi bei fiori? Grida di non farlo, di non farlo. Le rose primaverili cadono dalla mia fronte, sul capo mi si rizzano, in un accesso d'orrore, i capelli impregnati di profumi. Perché dal mio volto, che non vuole, cade questa pioggia? Tra le mie parole si insinua un gemito. È la tristezza che ama le lacrime sue compagne, è la crudele voglia di piangere degli sventurati. Sì , ho voglia di gridare lugubri lamenti, di strapparmi le vesti impregnate di porpora siria. Ho voglia di ululare, io. Mi dà il presagio di un lutto
vicino, il mio cuore, che già sente la sventura... Una tempesta tremenda incombe sui marinai quando da sole, senza vento, le onde placide cominciano a gonfiarsi. Pazzo, che lutti ti inventi, che affanni? Affidati con fiducia a tuo fratello. Sia quel che sia, non c'è motivo di timore o è troppo tardi. Povero me, un vago terrore - no, non voglio! - si muove nel mio animo, ora spargono lacrime i miei occhi, e non ce n'è ragione. È dolore o paura? Forse una gioia troppo grande esige lacrime?
ATREO
Questo giorno di festa, celebriamolo insieme, fratello, con uguale fervore. Ecco l'uomo che rafforzerà il mio scettro e la fiducia nella pace.
TIESTE
Sono preda del cibo e del vino, io. Questa felicità, solo una cosa può aumentarla: fa che la goda coi miei figli.
ATREO
Fa conto che siano qui, tra le braccia paterne. Sì , ci sono e ci saranno. Non un briciolo della tua prole ti verrà sottratto. Te li darò, i volti che reclami, presto farò che il padre sia pago di loro. Sì , ne sarai sazio, non temere. Ora stanno onorando, con i miei, la gioconda mensa della gioventù. Ma li farò venire. Prendila, questa coppa avita, ricolma di vino.
TIESTE
Mi è grato questo dono del fraterno convito. Libiamo il vino agli dèi familiari, e, ora, beviamo. Che succede?... Le mie mani non vogliono obbedire, la coppa si fa troppo pesante, la mia destra si abbassa. Il vino si ribella se lo avvicino alle labbra, elude la mia bocca, le scivola intorno. La tavola sobbalza, trema il suolo. Il fuoco dà una luce stenta. Questo cielo grave, che si è fatto deserto, stupisce lui stesso che non sia giorno né notte. Cosa c'è? Trema, trema sempre più scossa, la volta del cielo. Scende caligine densa più che la tenebra fitta. La notte s'è nascosta nella notte. Ogni stella è fuggita. Qualunque cosa ci minacci, io prego che risparmi mio fratello e i miei figli. Qui, qui, sul mio spregevole capo, si scarichi tutta la tempesta! Adesso ridammi i miei figli.
ATREO
Sì , te li rendo, mai un giorno te li strapperà.
TIESTE
Che cosa trema dentro di me? Sento un peso insopportabile. Cos'è questo cancro che mi devasta il ventre? Il mio petto geme ma non è mio, questo gemito. Venite qua, figli, venite. Vi chiama il vostro misero padre. Fuggirà, questa angoscia, se vi vedo. Da dove mi stanno parlando?
ATREO
Preparati all'abbraccio, padre. Sono qui! (Mostrandogli le teste dei figli) Non li riconosci?
TIESTE
Riconosco il fratello. Terra, ma tu puoi sopportarlo, il peso di questo delitto? Non ti squarci per sprofondare te e noi nell'infernale Stige? Non li travolgi, in quel grande squarcio verso la vertigine del caos, questo regno e il suo re? Non la sradichi dal suolo, Micene, non la capovolgi tutta? Tu ed io dovremmo già essere da Tantalo. Ma se un posto c'è sotto il Tartaro e i nostri avi, ebbene, spalancalo per noi, mandaci in quella landa sconfinata, sotterraci laggiù, coprendoci con tutto l'Acheronte. Vaghino sul nostro capo le anime
condannate, scorra sul nostro esilio il fuoco del Flegetonte col suo flutto rovente spingendo sabbie bruciate... Non ti muovi, terra? Perché rimani come un peso morto? Gli dèi sono fuggiti.
ATREO (Gettandogli i resti dei suoi figli)
Prendi questi, invece. Non sei contento? È tanto che li reclamavi. Tuo fratello non ti fa perdere tempo. Rallegrati, baciali, dividi tra loro tre i tuoi abbracci.
TIESTE
Questo, il patto? Questa la parola di un fratello? Così mi fai grazia? Così sotterri l'odio? Io, padre, non ti chiedo di rendermeli vivi, io ti prego, da fratello a fratello, di una cosa che si può concedere senza intaccare l'odio e il delitto. Lascia che li seppellisca. Rendimeli, li vedrai subito cremati. Non per tenerlo ma per perderlo è questo nulla che ti chiedo, io, il padre.
ATREO
Lo hai già, tutto ciò che resta dei tuoi figli. E anche ciò che non resta.
TIESTE
Crudeli avvoltoi stanno straziandoli? O li riservi per le belve? O già nutrono le fiere?
ATREO
I tuoi figli, li hai già divorati tu, nel tuo sacrilego pasto.
TIESTE
Ecco di cosa si sono vergognati gli dèi, ecco cosa ha respinto il sole verso oriente. Misero me, che parole griderò, che lamenti? Ci sono parole che mi bastino? Le loro teste recise, io le vedo, vedo le mani mozzate, e i frammenti delle gambe. È quanto l'avido padre non è riuscito a ingoiare. Si rovesciano, qui dentro, le mie viscere, lotta senza uscita il delitto che vi è rinchiuso, cerca un varco. Qua, dammi la tua spada, fratello... il mio sangue lo conosci bene...
col ferro Si apra un varco ai miei figli. Non me la dai, la spada? Squarciati, allora, petto, per i colpi e i gemiti. Ferma la tua mano, infelice! Abbi pietà dei morti... Chi l'ha mai visto un delitto così ? Un brigante del Caucaso selvaggio? Il terrore della terra cecropia, Procuste? Sì , io, il padre, gravo sui miei figli e i miei figli gravano su di me. Non c'è limite al delitto?
ATREO
Il limite dev'esserci nel farlo, non nel restituirlo. Tutto questo è ancor poco, per me. Il sangue, avrei voluto ti colasse caldo dalla ferita stessa nella bocca, perché bevessi sangue di viventi... Mi rammarico di aver avuto troppa fretta. Certo, ho immerso la spada per ferirli, li ho immolati nel tempio, col loro sacrificio ho placato il mio altare. Operando sui corpi esanimi ho fatto a pezzi e bocconi le membra, parte le ho gettate nella caldaia bollente, parte le ho fatte sgocciolare a fuoco lento. Ho tagliato carni e nervi ancora palpitanti, ho visto le loro fibre stridere sullo spiedo. Io, proprio io, con questa mano, ho rinforzato il fuoco. Tutto questo, il loro padre l'avrebbe fatto meglio. È andato sprecato il suo dolore. Li ha masticati, sì , con la sua sacrilega bocca, ma senza saperlo, senza che lo sapessero.
TIESTE
Uditelo, questo delitto, mari chiusi da rive sinuose, uditelo anche voi, ovunque siate fuggiti, dèi. Uditelo terre, uditelo Inferi, e tu, notte eterna del Tartaro dalle nuvole nere, bada alle mie parole. Io sono abbandonato a te, tu sola vedi questo sventurato, anche tu senza stelle. Non farò voti scellerati. Non chiederò
nulla per me - e che mai può esserci per me? I miei voti sono per voi stessi. Altissimo reggitore del cielo, potentissimo signore della celeste dimora, avvolgilo tutto, il mondo, di orride nubi, scatena ovunque la guerra dei venti, tuona violento da ogni parte. Scaglia con la tua mano - no, non quella che colpisce tetti e case innocenti con dardi leggeri, ma quella che abbatté la triplice mole dei monti e i Giganti che pari a quei monti si ergevano - con la tua mano scaglia le tue armi, lancia le tue folgori. Fa vendetta del giorno perduto, dardeggia le tue fiamme, con i tuoi fulmini restaura la luce che è stata rapita al cielo. Non esitare più, fa conto che colpevole sia l'uno e l'altro, se no che sia io. Colpiscimi, dunque, fa che m'attraversi il petto, sul dardo tripunte, una fiaccola accesa. Bisogna che sia cremato, io, se come padre voglio onorare i miei figli affidandoli all'ultimo rogo. Se nulla può commuoverli, gli dèi, se nessun dio fulmina i colpevoli, fatti eterna tu, notte, e ricopri questi delitti di tenebre senza fine. No, non mi lamento, Sole, se resti sempre nascosto.
ATREO
Ora posso lodarvi, mani. Ora sei mia, Vittoria. Il mio delitto lo avrei sprecato, se tu non soffrissi tanto. È come se mi nascessero ora, i miei figli; ora ritorna casto il mio letto nuziale.
TIESTE
Che colpa avevano, i miei figli?
ATREO
Di essere tuoi.
TIESTE Generati da me?
ATREO
Sì , da te, è sicuro, e ora questo mi piace.
TIESTE
Dèi degli uomini pii, chiamo voi a testimoni.
ATREO
Non gli dèi del matrimonio?
TIESTE
Chi compensa il delitto col delitto?
ATREO
Lo so, io, di cosa ti lamenti. Tu piangi perché te l'ho rubato, il delitto. Non ti disperi perché hai ingoiato quel cibo nefando, ma perché non l'hai preparato a me. Non ti mancava, no, il coraggio di imbandire al tuo fratello ignaro un pranzo così , di colpirgli, con l'aiuto della madre, i figli, di ucciderli nello stesso modo. Solo un pensiero ti ha fermato: che fossero tuoi.
TIESTE
A far vendetta verranno gli dèi. I miei voti ti consegnano a loro, per il castigo.
ATREO
Io, per il castigo, ti consegno ai tuoi figli.
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